Credo che ci siano tre grandi famiglie di windsurfisti: quella degli "easy surfers", quella dei "city surfers" e quella dei "radical surfers".
Nota: non è il livello tecnico a fare la differenza, quanto piuttosto il tipo di equilibrio che uno si crea nella propria vita per gestire casa, lavoro, amici e crisi di astinenza tra un'uscita in acqua e un'altra.
L’easy surfer se la passa meglio di tutti: è quello che può sostanzialmente decidere di non entrare in acqua, anche se le condizioni sono perfette, semplicemente perché… non ne ha voglia!
E questa presa di coscienza non gli innesca alcun tipo di isterismo o di disturbo, non sente nessuna scimmia nel cervello che suona i piatti fino a che non si lega il trapezio in vita, macchè…bello e beato, lui si gode in totale serenità lo scorrere delle stagioni e il soffiare dei venti, e la cromia di Windfinder o il grafico della Bora non riusciranno a modificare di una virgola il corso della sua settimana o del suo weekend, senza ansie né frustrazioni.
Il city surfer ha solitamente un lavoro che lo occupa durante tutto il giorno (o quantomeno in quella parte della giornata in cui entra il vento giusto), vive in città, al lago, al mare o in montagna, non importa: per entrare nella prima pozza di acqua surfabile dei dintorni, per quanto vicina a lui possa essere, deve rinunciare a qualcosa, fare dei sacrifici, destreggiarsi come un funambolo per evitare richiami in ufficio, litigi di coppia, crisi coniugali, bronci dei figli, etc etc …
A differenza dell’easy surfer, se le condizioni del vento sono nei limiti della decenza, farà sicuramente un tentativo (piccolo o grande) per ritagliarsi una surfata “intellettualmente onesta”, cioè che dia a lui soddisfazione e al contempo non sia eccessivamente nociva per il suo environment socio/domestico/lavorativo.
La terza famiglia conta rari esemplari sparsi nel mondo, io ne ho incontrato uno quest’estate in Grecia: si tratta per lo più di filosofi del mare, con uno stile nelle manovre che si discosta dalla media, a volte (ma non per forza) mostri di potenza, sicuramente fuoriclasse. Il radical surfer sceglie di rinunciare ad uno stile di vita canonico, come potrebbe essere quello del city surfer, per girare il mondo alla ricerca di nuovi spot. Non è stanziale, semmai transumante con cadenze annuali. Non è un professionista, non ha la tessera PWA, però se glielo chiedi ti racconterà di surfate ai limiti del possibile. Per lui entrare in acqua quando soffia è una condizione essenziale del vivere, tutto il resto viene dopo.
Può capitare che un E-surfer che esce 5 volte l’anno chiuda più strambate di un C-surfer che si arrabatta per entrare in acqua un sabato sì e uno no: l’apparente contraddizione potrebbe trovare una spiegazione nel fatto che l’E surfa da quando aveva 10 anni, e una volta entrato nella maggiore età vive di rendita, come un top manager che si può permettere il lusso di rifiutare mandati non di suo gradimento.
O che un C-surfer sappia fare determinate manovre con maggiore precisione tecnica rispetto ad un R-surfer, perché si applica con fervore a provare e riprovare ogni volta, nello stesso spot, lo stesso passaggio fino a che non gli riesce. Come un universitario diligente che studia ora e ore il medesimo capitolo fino a che non gli entra in testa alla perfezione.
Anche se è innegabile che il R-surfer sia, mediamente, più esperto degli altri due. Più esperto, ma non per forza più bravo.
La vera differenza è lo spirito con il quale entriamo in acqua: il windsurf non è uno sport come gli altri, perché richiede rispetto.
Verso il prossimo, innanzitutto, perché è doveroso in qualunque disciplina ed è criminale non averlo, ma soprattutto verso elementi della natura che non controlliamo e che sono mutevoli per definizione, cioè vento e acqua.
E, non ultimo, verso noi stessi: per evitare di causare situazioni in cui potremmo farci male, e causarne a nostra volta ad altri.
Easy, city o radical, possono essere fasi della vita, in cui passiamo senza soluzione di continuità e che cambiano.
Ma la passione ... no, quella non passa.
Simone
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